Durante la mattina di questo soleggiato venerdì novembrino, l’aula 44 dell’Accademia di Belle Arti di Brera si è riempita di foto e parole cariche di luminosità e gioia creativa: “Fotografia e archivio in dialogo”, il progetto che gli studenti di beni culturali hanno portato a termine su proposta del Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma.
Lo scopo non era tanto quello di creare un progetto artistico, anzi si trattava di realizzare un archivio di relazioni umane che potesse generare nuove forme di crescita e formazione, al di fuori dell’aula universitaria. È stato di grande ispirazione assistere a come dei ragazzi siano riusciti a creare una vera e propria comunità sulla base dell’incoraggiamento dei professori, del desiderio di esprimersi al di là del talento artistico e della volontà di mettersi in gioco. A partire dalle immagini d’archivio, che hanno funto da medium e innesco, i ragazzi hanno iniziato un percorso di pensiero e di ricerca interiore, poi sfociato negli scatti fotografici. Credo che i professori abbiano fatto un ottimo lavoro nell’instaurare un dialogo intergenerazionale libero e liberatorio: dalle foto si evince come la firma autoriale dei professori rimanga dietro le quinte, per consentire l’emergenza di una partecipazione sentita, grata ed espressiva di ogni studente. Pensare attraverso immagini, ecco cosa vuole comunicarci questo progetto: immagini autentiche, lontane dalla perfezione estetica, per parlare della scomoda imperfezione interiore.
Anna Consoli
Senza rendermene conto, oggi, venerdì 15 novembre, ho creato una coincidenza perfetta. Esco dalla mia lezione di Estetica dell’ambiente e del paesaggio per avviarmi a un incontro proprio vicino alla Cattolica che parla delle donne e della natura. Si intitola “Milano: la natura al femminile”, coincidenza perfetta perché questo pomeriggio il Professore di Estetica aveva parlato di giardini, giardini che vengono trattati anche nell’incontro. Il giardino, la natura sono un filo che continua ad essere presente durante tutta la presentazione dei libri Donne cuore di Milano e I giardini delle Donne in cui le biografie di diverse donne -scienziate, artiste, sarte - si intrecciano l’una con l’altra. Se da una parte viene quasi con naturalezza provare dolcezza al pensiero dei parchi che vengono intitolati a chi oggi dobbiamo ringraziare per essere un po’ più vicine alla parità di genere, dall'altra è amaro pensare alle statue che sono state dedicate solo a uomini (le poche dedicate alle donne lo sono non per la figura in sé ma più per il simbolo che rappresenta), così come le vie, sebbene oggi, grazie al lavoro del comune di Milano, quelle dedicate a figure femminili siano passate dall’essere solo il 3% al 6,5%. L’incontro, ospitato dal Museo Martinitt e Stelline, è anche occasione per incontrare una donna, Aurelia Josz, che è riuscita a fare la differenza per quello che era l’orfanotrofio Stelline. Una volta conseguita la laurea in Lettere a Firenze, Aurelia si trasferisce a Milano per insegnare Storia e Geografia alla scuola Gaetana che formava maestre e con metodi alternativi di disciplina, ovvero piccole scenografie di carta e piccoli musei geografici, aiuta a svecchiare l’orfanotrofio della Stella, fondando anche la prima pratica di agricoltura. Veniamo a conoscenza di queste sue azioni grazie a dei verbali del 1902 in cui si accetta la proposta che si rivelerà rivoluzionare l’orfanotrofio, vissuto da sempre in una situazione quasi di clausura. Aurelia Josz permette quindi alle giovani fanciulle di studiare e crearsi un futuro in cui sostenersi da sole, oltre ad aprire anche la strada ad altre scuole professionistiche che danno una possibilità di auto sostegno alle giovani dell’epoca. Un percorso legato e inscindibile quello fra donna e natura che ci ricorda la potenza di Madre Natura e che insegna anche a guardare oltre il nome dato a vie o giardini per vedere la persona che vi è dietro.
Margherita Cerri
La giornata di oggi è iniziata in modo inconsueto, non con una presentazione di un libro né tantomeno con una mostra (quella è arrivata dopo in pausa pranzo), bensì con l’esplorazione di Terre di Mezzo Editore, che in onore del suo 30esimo compleanno ha deciso di aprire le porte al pubblico e accompagnarci nei meandri della casa editrice. Definirla “solo” una casa editrice, tuttavia, sarebbe riduttivo: nata come giornale di strada, nella sua evoluzione, questa realtà ha mantenuto i tratti di varietà di argomenti e storie ricercate, unendo il tutto al sempre presente impegno sociale, ancor più evidente nell’organizzazione della fiera Fa’ la cosa giusta!, nata proprio con l’intento di valorizzare la formazione, le eccellenze e le buone pratiche di consumo attraverso laboratori per grandi e piccoli. Io, da grande amante dei libri illustrati e di arte, non potevo che rimanere estasiata dalla vista di così tanti volumi per bambini di tutte le età e dall’idea di poter sfogliare tutti questi mondi. È sempre bello in qualche modo tornare piccoli e perdersi nei colori, nelle battute e nelle avventure e disavventure dei protagonisti di queste storie. È stata molto interessante anche la piccola esposizione dedicata alla loro nuova uscita L’invenzione dei tuoi occhi, illustrata da Lucio Schiavon, di cui era possibile osservare le versioni originali di alcuni disegni che figurano nel testo, scorgendone segni, colori e gesti.
A causa di un disguido con le metro di Milano, sempre affidabilissime, il destino mi ha portata alla fine della tratta M2, presso la Biblioteca Chiesa Rossa. E nonostante io abbia vissuto una disavventura simile a quelle dei personaggi nelle storie sopra citate, ho colto l’occasione per godermi i lavori realizzati da studentesse e studenti del corso di illustrazione della Civica Scuola Arte & Messaggio di Milano. Il focus di questa iniziativa è il centenario della morte di Franz Kafka e i disegni degli studenti andavano a reinterpretare le sue storie e in alcuni casi il suo volto. Mi hanno colpita particolarmente lo stile fumettistico di Adriana di Gennaro nella sua rappresentazione di Indagini di un Cane, l’uso degli acquerelli di Sara Masi e il blu dell’opera di Matteo Pasquale in cui mi sono sentita quasi annegare, e infine, ma non per importanza, le texture e sagome realizzate con le matite da Giulia Boccucci e Heloisa Oliveira. Tutte queste voci in concerto a rimettere insieme i pezzi del puzzle quasi impossibile che era Franz Kafka.
E dopo il percorso artistico tracciato dagli studenti è stato il turno di un altro percorso, emozionale, attraverso la lettura di poesie e testi scritti dall’autrice che presentava l’evento, Cristina T. Chiochia. La cultura della pace: Reading "Amore e psiche” non ha ripreso la narrazione di Apuleio, è stato piuttosto un viaggio di riflessione sul rapporto tra l’amore, le passioni e il modo in cui la nostra psiche ci aiuta nel ritrovare la pace. Lo spazio espositivo della Casa delle Associazioni e del Volontariato di Municipio 1 si è trasformata in un laboratorio collettivo, alla fine del quale ciascuno di noi ha potuto portare a casa nuove consapevolezze e una piccola poesia. Sono state attraversate tutte le fasi della produzione di un testo drammaturgico: la ricerca del ritmo e delle pause, le interruzioni che possono verificarsi nel nostro flusso di pensieri, l’atto di dare un nome al vuoto che talvolta ci troviamo davanti o al nostro interno, l’ascolto attivo di chi siamo veramente. Abbiamo percorso le note, i passi e la vita della figlia di Hokusai, con la passione di creare i colori per le opere del padre, comprendendo come sia stato proprio questo amore ad averla salvata.
Alice Carrier-Ragazzi
L'installazione “Ogni giorno di guerra. Installazione di 500 libri feriti a morte” degli artisti Lorenzo e Simona Perrone si trova presso la Fabbrica del Vapore di Milano. Fin dall’esterno, è molto accattivante: un tendone nero poggia sulla soglia della Sala delle colonne, coprendone completamente la parte interna e impedendo di guardarvi dentro. Si percepiscono dei forti rumori, tra cui urla e spari, che invogliano a scoprire cosa vi sia oltre quella scura “barriera”. Scostando le tende ed entrando nella Sala, ci si trova davanti ad alcuni libri disposti per terra, a rappresentare le bianche lapidi di un cimitero. Schizzati con della pittura rossa, evidente richiamo al sangue, i libri amplificano l’idea della morte e portano a riflettere sulla brutalità e sull’atrocità della guerra. L’installazione si configura dunque come simbolo delle tragedie umane e delle strazianti sofferenze che caratterizzano il mondo contemporaneo. Il pubblico viene coinvolto in un’esperienza sensoriale immersiva che va ben oltre la semplice contemplazione estetica per diventare un atto di testimonianza e di consapevolezza. Come accennato precedentemente, il suono è un elemento cruciale dell’installazione: un insieme di rumori metallici e di voci distorte fa sì che la denuncia contro la cultura della guerra sia ancora più incisiva. La sonorità, infatti, è volutamente disturbante, e va a creare un’atmosfera cupa che ci immerge in un mondo senza pace, dove il dolore non ha mai fine. Accanto a questi suoni, emergono voci umane frammentate e confuse, tutte accomunate dalla capacità di evocare una sensazione di impotenza e di smarrimento. L’installazione dei Perrone, in un mondo che è continuamente piegato dalle stragi e vessato dalla violenza, ha tanto da comunicarci: diviene un grido silenzioso, un monito che invita a pensare al dolore collettivo causato dalle guerre, e ci ricorda che non stiamo parlando di fenomeni lontani da noi. La scelta di non focalizzarsi su un conflitto specifico, ma di rappresentare la guerra in generale enfatizza il carattere universale del tema: la sofferenza che nasce dalla violenza è un’esperienza che travalica i confini geografici e storici.
Aurora Pecci
È stato in un piccolo salotto con un divano blu e una scala a chiocciola che ho scoperto chi fosse davvero uno dei miei scrittori preferiti. In questo spazio, che appare lontano dal mondo, come una bolla in cui il cuore è pronto ad accogliere i colpi inflitti dai frammenti della verità, inizia un’intima e profonda conversazione con Mauro Trentadue e Lorenza Mantovani. Chi è Henry David Thoreau? È “l’altro Thoreau” quello che si legge nei libri di Mauro e Lorenza: libri che diventano sottili per far sì che i lettori non possano avere l’alibi di non aver tempo per leggerli. Viene delineato un Thoreau che urla, si agita, smania dalla voglia di uscire dalla gabbia in cui il superficiale sentito dire comune lo ha inserito: egli non è l’eremita di Walden o “il filosofo della natura” o, per meglio dire, non è solo questo. Quello che alla fine dell’incontro cammina con noi verso casa è un Thoreau che si veste del mondo sociale e politico della sua epoca: si immerge all’interno per poi discostarsene, andando contro, muovendosi controtempo; è un filosofo sistematico e coerente tra idee e azioni: la sua vita diviene la pratica della sua filosofia. Quello che ci viene raccontato è un filosofo che agisce, non solo attraverso l’inchiostro ma anche con fatti. Attualissimi sono i temi da lui trattati, sentiti, vissuti e chiacchierati durante l’incontro. Stacchiamo per prima l’etichetta dell’anarchico: affrontiamo il suo concetto di “disobbedienza civile”, non verso la legge in generale ma verso quella che egli ritiene ingiusta, tanto da fargli dire “La legge non renderà mai gli uomini liberi; sono gli uomini a dover mantenere libera la legge”. Lo ritraiamo, attraverso le parole di Lorenza e Mauro, come un nemico di quello Stato che incarna e, allo stesso tempo, garantisce la proprietà privata. Diviene, poi, filosofo della libertà, impegnato nella lotta per l’abolizione della schiavitù e, ancora, cantore della vita semplice poiché “la ricchezza spiana la strada di ciò che si desidera ma ciò che si desidera non è mai necessario”. L’impegno costante, che la conversazione nella stanza è intenta a cucire, è lo spazzare via dall’immaginario comune quelle subdole etichette parziali, che, quando applicate, depotenziano l’immensità dell’esistere di un uomo e le manifestazioni che di lui rimangono durante questa vita. Questo dialogo, fino alla sua morte (messa in scena attraverso la luce di una lampada da scrivania, che rimane unico rumore della stanza, oramai abitata dal solo silenzio), sembra attento a proteggere delicatamente un germoglio da poter donare agli ascoltatori. Questo germoglio ha come fine il fiorire per divenire senso critico e consapevolezza sulla complessa e articolata natura di questo filosofo.
Gerarda Villano
Dopo aver avuto l’opportunità di intervistare l’autore Michele Masneri presso la sala lettura della libreria Egea in occasione di Bocconi4BookCity, a cui ho partecipato con l’Associazione letteraria Bocconi d’Inchiostro, ho deciso di continuare il mio percorso in BookCity Milano 2024 partecipando all’evento “Maschiocrazia. Perché il potere ha un genere solo (e come cambiarlo)”. L’incontro si è tenuto presso il Teatro Franco Parenti, punto di ritrovo molto importante nel panorama teatrale milanese e che io personalmente apprezzo molto. Al termine di questo evento, mi trovo un po’ perplessa e non so bene come articolare i miei pensieri e le mie riflessioni in merito all’incontro. Probabilmente mi aspettavo qualcosa di diverso, sia dai relatori sia dalla struttura dell’intera conversazione. È stato però interessante ascoltare pensieri, molto probabilmente simili al mio dato anche l’argomento del libro, ma espressi e articolati in maniera differente. Infatti, iniziando dalla definizione di maschiocrazia come modello di potere in cui è presente un personaggio potente, molto spesso maschile, il confronto è stato poi avviato dai relatori, facendo emergere tematiche interessanti, legate soprattutto al mondo della politica. Sono stati forniti dati e anche esperienze personali che hanno messo in evidenza come il problema della maschiocrazia, generato senza dubbio dal patriarcato, persiste ancora, come evidenziato anche dalla conclusione delle elezioni elettorali americane avutasi solo pochi giorni fa. Partendo dall’America, si è poi passati all’Italia, in cui la situazione, ancora una volta, non è delle migliori. Quote rosa, linguaggio, modelli di riferimento, tutto ciò è entrato nella conversazione, generando anche opinioni contrastanti che hanno permesso di alimentare il dibattito. Sicuramente, una cosa che mi ha permesso di riflettere è rappresentata da quanto affermato dalla Senatrice Cristina Tajani, la quale ha evidenziato come, nel mondo della politica, ma io direi anche in tanti altri ambiti della nostra vita, le donne non abbiano punti di riferimento. Probabilmente, è una cosa che tutte noi sappiamo, perché evidente e sotto i nostri occhi ogni giorno, ma sentirlo dire ad alta voce da un’altra donna è stato per me importante. Poi, legando il discorso a questo dato di fatto, tante altre problematiche sono state messe in luce, problematiche reali che condizionano la vita di noi donne ogni giorno e a ogni età. Come dicevo all’inizio, al termine dell’evento, e a tratti anche durante, mi sono però trovata sconcertata. Difatti, nonostante suppongo che gli ideali alla base fossero gli stessi per tutti i presenti, le spiegazioni fornite a determinati fenomeni, le possibili risposte e anche i modi di interpretare la nostra realtà contemporanea sono stati diversi, e, in alcuni casi, profondamente diversi, tanto da farmi completamente discostare da quanto detto. Ritengo che quanto accaduto sia stato estremamente significativo per due ragioni: innanzitutto, ha permesso a molti di uscire dalla propria bolla, facendoli scontrare con opinioni simili, ma allo stesso tempo diverse; di conseguenza, spero abbia fornito a tutti i presenti spunti di riflessione, che, seppur non cambieranno le idee personali, permetteranno di essere più aperti a quanto l’altro ha da dire. In ogni caso, ancora una volta, BookCity ha rappresentato un’occasione di confronto e crescita di cui fare tesoro.
Livia Iacono