Poche cose al mondo mi fanno sorridere tanto quanto immergermi nella natura ed essere circondata da cani, perciò la mattina di oggi non poteva iniziare meglio: con una camminata alla Biblioteca degli Alberi di Milano per raggiungere Fondazione Riccardo Catella, sede del primo incontro della giornata. Poetry and the City, progetto portato avanti per far appassionare le persone alla poesia, quest’anno in linea con il tema di BookCity, muta in Poetry and the Peace. I poeti si sono dedicati alla lettura di componimenti che trattano infatti di guerra e di pace, con l’auspicio di poter parlare di quest’ultima sempre di più. Ancor prima della lettura condivisa delle poesie, il tutto è iniziato con un intervento molto potente di Cecilia Strada, europarlamentare che nella sua vita da attivista ha visto in prima persona gli orrori delle guerre, anche quelle che si vivono tutti i giorni. Perchè nel mondo in cui viviamo è purtroppo molto più facile parlare di guerra e innalzare muri nei confronti degli altri, piuttosto che ricercare una pace basata sull’equità e sul ri-avvicinamento delle persone, permettendo uno scambio e un progresso positivo, non costruito sulla paura e sull’allontanamento. Nicola Gardini inizia poi il reading con alcune poesie di Wilfred Owen, poeta che ha preso ispirazione da Keats e dai Romantici. I componimenti scelti appartengono per lo più alla sua produzione al fronte, in cui scrive della guerra in modo provocatorio, per protesta, disegnandone con le parole i tratti più bui. Vittorio Lingiardi procede poi affiancando le poesie di Nina Gheorghievna Turbina, scritte nella sua infanzia, dettate alla madre e alla nonna nei momenti di sconforto dati dalla malattia, e alcuni passi della Trilogia della città di K. Vivian Lamarque, invece, decide di leggere due poesie della poetessa polacca Wisława Szymborska che, più di tutte, mi hanno colpita. In Salmo è evocativa la rappresentazione del mondo naturale che sfida i confini e le frontiere (im)poste dall’uomo, mostrando quanto siano in realtà effimere: “Solo ciò che è umano può essere davvero straniero. / Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento”. Infine, in La fine e l’inizio sono centrali le figure di chi tenta di rimettere insieme i cocci e i detriti causati dalla guerra, tanto quelli fisici quanto quelli interiori. L’interesse nei confronti di un luogo colpito dagli scontri pian piano si affievolisce, e con il passare degli anni “Tra l’erba che ha ricoperto / le cause e gli effetti / dev’esserci qualcuno disteso, / con una spiga tra i denti / perso a guardare le nuvole”.
Qualche via più in là, all’Anteo, Palazzo del Cinema, si è tenuta successivamente una conferenza dedicata al Cinema che si fa (anche) a Milano. Gianni Biondillo, Paolo Mereghetti, Marina Pierri e Matteo Pavesi, moderati da Alessandra Casella, ci hanno accompagnati attraverso aneddoti e riflessioni, nei meandri del percorso “accidentato” della produzione milanese, lontana da quella della capitale su molti aspetti. Il fine del libro da loro realizzato, insieme ad altri studiosi ed esperti, è infatti proprio quello di omaggiare il cinema di Milano che “non è solo il suo Duomo o la Stazione Centrale”. Come Paolo Mereghetti ha tenuto a specificare, il cinema è soprattutto gli spettatori e gli esercenti della città, che ancora si curano rispettivamente di cercare, proporre e insieme di mantenere la cultura cinematografica che caratterizza Milano. Il rapporto pubblico-cinema è essenziale, questa “umanità vera”, come la chiama l’autore, che ancora ricerca l’esperienza del Cinema, a prescindere dai risultati al botteghino o dai trailer.
La mia giornata si è conclusa infine al Centro di Nonviolenza Attiva, dove Daniela Annetta ha approfondito La visione dei Nativi americani per vivere in pace e in armonia. Sherri Mitchell è l’autrice che si interessa proprio di questi temi, e riporta la saggezza indigena nativa che le è stata tramandata nel suo libro Sacred Instructions: “una mappa per lo spirito” per riportarci al rispetto e alla considerazione del prossimo e del mondo. Come riporta Daniela Annetta, si ricerca l’unità e l’armonia con gli altri per strade non violente ma di ascolto, che oggi sono sempre più difficili da trovare. La cosa migliore che possiamo fare, scrive Mitchell, è “decolonizzarci”, rivolgendosi a visioni che sfidano anche in parte la considerazione ormai fissa del mondo in cui viviamo. È importantissimo continuare a costruire delle vere e proprie reti condivise, ricominciare a pensare creativamente che è possibile arrivare a delle soluzioni, come hanno fatto molti durante momenti collettivi, reading, conferenze, workshop ed eventi in questi giorni di manifestazione.
Alice Carrier-Ragazzi
“Che schifo”, questa è solo una delle costanti microaggressioni che vengono rivolte a un corpo trans che si muove nello spazio pubblico: alla fermata del tram, al panificio, al ristorante. Yole è perplessa, giustamente scioccata, ma risponde immediatamente “Ma come ti permetti!”, è con il suo compagno, stanno aspettando l’autobus; l’autobus arriva ma decidono di non prenderlo. Fa un pianto liberatorio e cambia fermata, non può non pensare a tutte le persone che giornalmente vivono questi attacchi senza riuscire a rispondere. Torna a casa e fa un video con cui condivide l’accaduto sui social. È solo una, l’ennesima aggressione che le è stata rivolta nel corso della sua vita di donna e di donna trans. Il dialogo tra FumettiBrutti (Yole Signorini) e Jonathan Bazzi a Base Milano, domenica 17 novembre, si apre con il racconto di quest’episodio accaduto qualche settimana fa. La sala è piena, non ci sono solo giovani ma, con mia sorpresa, donne e uomini più grandi e anche bambine e bambini. L’incontro è sul nuovo libro di FumettiBrutti Tutte le mie cose belle sono rifatte, un atteeso proseguimento della sua Trilogia esplicita. Tra i temi del libro è centrale quello del corpo e della chirurgia, vissuta come strumento prezioso per permettere di avvicinarsi a ciò che si sente di essere. Quando gli interventi diventano traduzione di un’autoprogettazione del sé, il corpo diventa progetto e ogni sua modifica prescinde dal solo aspetto estetico ma influenza ogni sfera dell’esistenza. L’obiettivo è anche quello di smettere di chiedere costantemente il permesso di esistere; in una realtà dove la transfobia è sistemica e diffusa un corpo visibilmente trans è di per sé problematico, così ogni intervento chirurgico diventa slancio verso una liberazione possibile. Non ci si può non chiedere a questo punto quanto effettivamente sia la stessa società a imporre a tutti i corpi dissidenti di re-incasellarsi nei binari del maschile e femminile, quasi a volerne annullare ogni potenzialità sovversiva. Ma se questa è una battaglia che si combatte con il proprio corpo allora il primo passo è riappropriarsene, per riappropriarsi della propria esperienza del mondo. Scoprire il corpo come strumento per attraversare e sperimentare nello spazio e con la propria vita, concedendosi anche di non fare sempre la cosa giusta. Tutte le mie cose belle sono rifatte ritaglia e rivendica lo spazio per l’errore, la possibilità di sbagliare, il diritto alla frivolezza. È forse proprio questa la forza di FumettiBrutti, che sa trovare la forza della vita in ogni angolo di mondo: “con questo libro volevo far passare che nonostante tutto io al liceo mi son anche divertita”, dice, “e spero di esserci riuscita!”.
Marianna Fontana
L’evento “Salvato dai migranti” si è svolto nell’Auditorium del MUDEC di Milano, dove Don Mattia Ferrari, cappellano a bordo delle navi della ONG “Mediterranea Saving Humans”, ha ripercorso la sua esperienza personale e umanitaria al fianco dei migranti, affrontando, con grande sincerità, un tema scottante, su cui tanti preferiscono tacere o limitarsi a esprimere le solite frasi comuni sentite e risentite.
Don Mattia ha affrontato le problematiche più evidenti della società contemporanea, tra cui l’individualismo: ognuno pensa al proprio tornaconto personale e al proprio benessere, mentre la solidarietà dà fastidio, tanto da essere criminalizzata. Si genera così un paradosso del nostro tempo: un atto umanitario viene visto come un crimine. Tutti noi siamo convinti che non si possa fare nulla per cambiare il mondo che ci circonda e per porre fine a quella che don Mattia, nel suo libro, chiama «violenza simbolica», riferendosi alla questione dei migranti, ai rischi del cambiamento climatico e all’oppressione della comunità LGBT+. In realtà, la chiave della rivoluzione è la distruzione dell’individualismo: se iniziassimo a prestare più attenzione all’altro e al diverso, aiutandoci a vicenda, ripudiando la discriminazione e l’aggressività e promuovendo il dialogo, certamente potremmo fare la differenza e raggiungere, passo dopo passo, un mondo equo e uguale per tutti.
L’incontro ha dato al pubblico l’opportunità di riflettere profondamente sull’umanità e sulle sue responsabilità nei confronti degli altri, soprattutto dei più vulnerabili. Don Mattia ha messo in luce l’importanza di riscoprire valori fondamentali come l’empatia e il rispetto per la dignità umana: in un mondo sempre più polarizzato, il suo intervento ci ha ricordato che ogni piccolo gesto di solidarietà può contribuire a costruire una realtà più giusta e inclusiva. È un invito a non chiudersi nei propri interessi individuali e ad aprirsi all’altro; un richiamo a diventare protagonisti di un cambiamento positivo, che deve partire da ciascuno di noi.
Aurora Pecci
Cornice di questo incontro è il tempio sacro di una sala cinematografica. Tra le familiari sedute del Palazzo del Cinema. Questa volta, però, non cala il silenzio e le luci non vengono spente.
“Infinito Antonioni. Una ricerca rivoluzionaria sulle immagini”: questo è il titolo del saggio che viene presentato e che vede come protagonisti del dibattito Elisabetta Amalfitano, Giulia Chianese, Giusi De Santis, Iole Nantoli, Francesca Pirani e Francesco della Calce.
Come si rappresenta l’incomunicabilità per Antonioni? Spazi: non come paesaggi ma come tempo interno. Gli spazi (quasi marziali, lontani da coordinate temporali o spaziali, post-atomici) entrano in scena per colmare le emozioni inespresse, non pronunciate. Anche i personaggi abbandonano la scena: nessuno appare; i protagonisti diventano oggetti. Questo è ciò che avviene quando, nella chiusura de “L’eclisse”, ad occupare la scena è il bianco e nero di strade deserte, silenziosi alberi e geometrie perfette: la fine di un amore svelata esclusivamente attraverso la solitudine dei luoghi una volta abitati dagli amanti, che non compariranno più in scena. Come se si fosse, improvvisamente, catapultati all’interno di uno dei quadri di Edward Hopper, dove, questa volta, i soggetti ritratti sono scomparsi.
Antonioni narra l’invisibile, racconta il latente. Chiama lo spettatore stesso a creare l’immagine di anaffettività e incomunicabilità, altrimenti inesprimibile. Questo saggio si impegna a dare ad Antonioni un nuovo volto: viene delineato tra le righe come edificatore del cinema della poesia, rivoluzionario e artista calato nell’ambito sociale e politico della realtà che vive. Vi sono, poi, le figure femminili: più fini da rappresentare nel processo di incomunicabilità poiché psicologicamente più complesse e intriganti, capaci di farsi capire senza utilizzare le parole.
Uscita dalla sala, rimango persa nella geometria di un edificio, silenzioso nella sua severità, chiedendomi se, a volte, sia “meglio parlare o morire”.
Gerarda Villano
Oggi, alla fondazione Giangiacomo Feltrinelli, sono salita a bordo di una nave: il suo nome è Mediterranea, un imbarcazione datata anni '70.
Ho ascoltato la storia della costruzione di questa nave, grazie al sogno di Luca Casarini, partendo dalla consapevolezza, che il caro “mare nostrum “, il Mediterraneo, sta diventando sempre di più una gigantesca fossa comune, con oltre 30.000 morti dal 2013 ad oggi.
Eppure c’è speranza, un altro mondo é possible, di fronte al male si può fare diversamente. Se il male è assenza di bene, allora è l’annichilimento del pensiero diverso, ci accontentiamo del mondo com’è. Ma bisogna interrompere questa infernale spirale, che ci conduce a un bambino che annega in mare, di cui la televisione ci ha mostrato e ci mostra immagini ricorrenti. Come per farci abituare al fatto che l’80% dei naufragi sono dovuti a omissione di soccorso.
Ma questa nave ha lo scopo di creare una "cospirazione del bene": un cospirare nel senso di fare amicizia , di creare delle relazioni e di trovare la forza dentro di noi per intervenire. Su questo punto è intervenuto Don Mattia Ferrari, cappelano di bordo della "Mare Ionio”, che ha parlato di come questa cospirazione sia un modo diverso di stare insieme per qualcosa, creando una fratellanza. DonMattia ha parlato di fraternità come valore politico, per cui le persone che vengono dal mare sono nostri fratelli e sorelle, ma su un piano politico. È intervenuto anche Ghali, il cantante, che ha raccontato della sua esperienza a bordo di Mediterranea, a Trapani, ma sopratutto ha raccontato dei suoi ricordi da bambino, quando sentiva da parte di amici e parenti delle loro tratte come migranti. Ghali ha parlato di come abbia cercato da piccolo di condividere queste storie a scuola, ma vedeva che i suoi compagni e gli insegnanti erano come disinteressati e disinformati. Non avendo persone con cui condividere queste storie ha iniziato a scriverne in alcuni testi delle sue prime canzoni.
Lucrezia Prati
Stasera, per concludere il mio personale percorso di Bookcity Milano 2024, ho deciso di partecipare all’evento Drag. Un’arte queer che scuote il mondo presso il Teatro Franco Parenti. Erano presenti come speakers dell’incontro Stefano Mastropaolo, Priscilla, Lina Galore e Tsnunami, tutti attivisti, esponenti del mondo LGBTQA+ e figure chiave nel mondo drag. La prima cosa che mi ha colpita appena entrata nella sala è stato vedere così tanti adulti: mi aspettavo di trovare una stanza piena di giovani ragazzi e ragazze, più o meno della mia età, che ovviamente erano presenti, ma il mio occhio ha dato molto più peso alla presenza degli adulti, che non mi aspettavo. Nel contesto in cui sono cresciuta, e cresco tutt’ora, queste sono considerate tematiche “da giovani”, allontanate dagli adulti. È stata dunque una piacevole sorpresa, che mi ha in qualche modo fatta sentire come parte di una famiglia allargata: è confortante sapere che una comunità che un tempo veniva etichettata come “i mancini del sesso”, che dovevano quindi essere corretti, oggi trova numerosi alleati, seppur i problemi persistano ancora, evidentemente.
Quello che mi è stato esposto durante questo incontro è un vero e proprio fenomeno sociale, il cui obiettivo principale è quello di creare uno spazio non "escludente": un modo per prendere consapevolezza delle proprie fragilità e dei propri limiti, mettendo anche l’altro di fronte a ciò che è e quello che potrebbe essere. L’espressione drag è molto più di gonne e paillettes, trucco e parrucco, è una vera e propria forma d’arte, che a sua volta fa riferimento a tanti mondi diversi, quali la moda, la musica, la letteratura etc. È, e questa è una delle cose che più mi piace, un’arte politica nel senso alto del termine: politica come partecipazione, attivismo, dissidenza. È una continua lotta agli stereotipi generati dalla nostra società patriarcale e maschilista, primo tra tutti la mascolinità tossica. Se oggi le donne portano i pantaloni, cosa che fino a non troppo tempo fa non era assolutamente concessa, perché un uomo che indossa la gonna crea ancora scandalo?
L’arte drag è stata illustrata come una strada fondamentale per molti per trovare il proprio equilibrio personale, per raggiungere finalmente la consapevolezza di se stessi nel presente. Allo stesso tempo però, è ancora enormemente oggetto di fastidio e di dinamiche di odio. Questo incontro mi lascia un invito a essere responsabili, ciascuno di noi, a combattere contro le discriminazioni di tutti i generi, a prendere posizione, a non rimanere in silenzio, a esporsi. Mi lascia anche un pensiero, che è stato espresso all’incontro, e che mi ha scosso particolarmente: oggi viviamo in un mondo in cui gli uomini con la gonna mettono paura, mentre gli uomini con la pistola girano a piede libero per le città.
Livia Iacono